venerdì 28 settembre 2012

Rock 'n' Roll Jiah

Jiah White si svegliò con un gran mal di testa. Come se gli avessero ballato il tip tap sulle tempie. Si tastò la faccia nel buio e sentì una fitta alla mascella, poi si toccò il costato, e le ossa incrinate gli fecero digrignare i denti dal dolore. Dietro la testa pelata, il taglio profondo che quel bestione gli aveva procurato con il calcio della pistola, pulsava ancora; gli sembrò come se una lametta continuasse a scavarci dentro. Si alzò a fatica e stese le braccia in avanti. Non fece più di tre passi che le mani toccarono un parete di cemento. Brancolò nel buio seguendo tutto il perimetro interno, a cercare qualche spiraglio e per farsi un idea sulle dimensioni della stanza. Trovò solo una porta d'acciaio e quell'ambiente gli sembrò grande quanto una vasca da bagno. Nessuna finestra o feritoia. Neanche la tana di un topo. Urlò, colpì la porta con pugni e spallate, finché non esaurì le forze e si sedette per terra, sfinito. Dopo ore di buio la porta si spalancò, la luce invase la stanza, Jiah strizzò gli occhi e quando li riaprì intravide una sagoma che ha fatica passava dalla porta: lo scagnozzo di Murano. Entrò con una sedia di legno e una lampada a pile, le appoggiò per terra, gli sputò in faccia, gli diede un ceffone pesante come una mattone e se ne andò. Poco dopo entrò Murano, che si sedette e gli tirò addosso un paio di occhiali: «Metti quei cazzo di occhiali, Jiah. Non vedresti a un passo dal tuo uccello senza quelli, e io voglio che mi guardi in faccia mentre ti spiego come morirai.»
Jiah indossò gli occhiali: Murano era grosso come un bue e aveva delle mani grandi come padelle. La testa aveva le dimensioni di una palla da basket e un collo che abbracciarlo sarebbe stato difficile. Indossava camicia, pantaloni bianchi e un paio di bretelle nere. Si arrotolò le maniche fin sopra gli avambracci nerboruti, prese un mozzicone di sigaro dal taschino e lo accese, fece un paio di boccate e gli soffiò il fumo in faccia:
«Sai perché sono vestito di bianco?» disse Murano.
Jiah non disse niente.
«Perché voglio tingerlo di rosso col sangue di quel figlio di puttana che mi ha scopato e poi ucciso la moglie. Cioè tu. Ma non ti voglio ammazzare subito, sarà un' agonia lunga e dolorosa, puoi metterci la mano sul fuoco. Prima di iniziare, però, voglio che mi spieghi per bene come sono andate le cose.»
«Io e Luane ci amavamo» disse Jiah a bassa voce. Murano rigirò il sigaro tra i denti, poi fece un altro tiro e sbuffò come una ciminiera:
«Cosa, scusa? Non ho sentito» disse.
«Io e Luane ci amavamo» disse Jiah, stavolta a voce alta.
Murano allungò un braccio e avvolse la gola di Jiah con la mano. E strinse.
«Come osi chiamare per nome mia moglie?» Jiah afferrò il polso di Murano con tutte e due le mani, ma gli sembrò come tentare di spostare un tronco d'albero. La mancanza di ossigeno creò le prime stelle. Come ultimo tentativo gli afferrò le dita in modo da tirarle e fargli mollare un po' la presa, ma rimasero ben salde alla gola, come zecche all'orecchio di un cane. L'ambiente divenne un'immagine distorta e ovattata. - Finalmente posso svenire in pace – pensò. Invece Murano allentò la presa, L'altra mano si spostò sulla nuca e avvicinò la testa di Jiah quel tanto che bastava per premergli il sigaro sulla fronte. Jiah sentì come se qualcuno gli avesse ficcato una lancia rovente nel cranio e rinsavì all'istante. Diede qualche colpo di tosse intervallato a conati di vomito, poi scosse la testa come per rimettere il cervello sballottato al suo posto.
«Che cazzo ti credevi, che ti avrei lasciato schiacciare un pisolino? Vai avanti» disse Murano. Jiah appoggiò per un secondo la mano sulla fronte. Quando la abbassò si guardò il palmo e vide un segno circolare, un misto di sangue e cenere, che aveva il colore di un frutto andato a male. Bruciava da morire. Si pulì la mano sulla canottiera e disse:
«Io e...»
«La signora Murano, pezzo di merda» disse Murano.
«Io e la signora Murano, andavamo a letto insieme, è vero. Ma non l'ho ammazzata io» disse Jiah.
«Sai cosa mi ha raccontato il bestione qua fuori invece?» disse Murano «Che ti ha trovato a casa mia, che avevi le mani sporche di sangue, e che Luane era stesa a terra davanti a te, con le mutandine abbassate, morta strangolata. Vuoi dirgli tu che mi ha mentito? Hey, Tonka, vieni. Jiah ti deve dire una cosa.»
Prima, senza gli occhiali e infastidito dalla luce, Jiah non aveva ben chiara la figura di Tonka. Vide solo una grossa massa indistinta. Quando Tonka entrò, si rese conto del perché quello schiaffo lo stava per mettere k.o. Era il doppio di Murano, aveva una rete autostradale di vene che gli avvolgevano le braccia, e il petto era simile al muso di un blindato.
«Avanti, dì a Tonka che mi ha raccontato un mare di stronzate» disse Murano.
«Non ho detto questo. Il suo scagnozzo mi ha trovato, è vero, ma le ripeto che non ho ammazzato io sua moglie» disse Jiah.
Murano diresse il suo sguardo verso Tonka e disse: «E tu cosa ne dici?»
«Dico che l'ha fatta fuori lui, capo. E che si è anche divertito a farlo. Ha strangolato sua moglie con le corde di una chitarra, e lui suona la chitarra»
Murano tenne lo sguardo fisso su Jiah: «E tu suoni la chitarra. Sentito?» 
«Sì, e qualcuno lo sapeva, e conosceva gli orari in cui andavo a casa di Lu... sua moglie, e mi ha inculato alla grande. Sono entrato che era già morta, e qualche minuto dopo è arrivato lui» disse Jiah indicando Tonka.
«Non lo hai visto mentre lo faceva?» chiese Murano a Tonka.
«No.»
Murano si voltò di nuovo verso Jiah e disse:
«Se confessi avrai una morte veloce»
«Non sono stato io» rispose Jiah.
«Lo immaginavo. Quindi mi toccherà cavarmela da solo. Non preoccuparti, ho un metodo tutto personale per sapere la verità. Per te ho studiato qualcosa di speciale. Sai, io non sono come tutti gli altri mafiosi. Soprattutto nel torturare. Sono sempre stato un tipo eccentrico in questo, e me ne vanto. E visto che ti piace così tanto la chitarra, ho una bella sorpresa per te. Tonka, chiama Angelo e digli di portare la roba.»
Tonka uscì dalla stanza e Murano rimase in silenzio, fissando Jiah negli occhi.
«Non c'entro nulla con quelle corde di chitarra» disse Jiah.
«Vedremo» rispose Murano «Hey, quarto di sega, muovi quelle chiappette» urlò poi.
Un nano entrò di fretta. Aveva un bandana blu in testa e una barbetta rossiccia ben curata. Le sopracciglia erano talmente folte e nere che sembravano disegnate col carboncino. La sua espressione era quella di chi avrebbe preferito avere la testa infilata nel culo di un cavallo piuttosto che trovarsi lì, in quel momento. Portò a fatica una chitarra (una Les Paul nuova di pacca) e un piccolo amplificatore. Li appoggiò vicino a Jiah, uscì e tornò con un secchio un pacco di carta igienica. Jiah aveva la faccia di un bambino davanti a un' equazione di fisica quantistica. Murano si fece una risata per tutto il tragitto del nano:
«Cazzo, i nani mi ammazzano. Non li trovi fantastici?» disse. Il suo viso si ricompose e tornò quello di un pitbull che ha appena ricevuto un calcio nelle palle. «Ma veniamo a noi. Oh, ecco il bagno a cinque stelle che avevo ordinato per te.» Il nano fece per andarsene, ma Murano lo bloccò:
«Dove vai, Gongolo? Resta qui.»
Il nano sbuffò e si mise vicino a Murano, che gli appoggiò la mano sulla testa, come un polpo su uno scoglio:
«Questo è Angelo. Il mio nano. Sarà quello che ti accudirà nelle prossime ore. Ti reggerà l'uccello se dovrai pisciare, e ti pulirà il culo dopo che avrai cagato. Tutto in quel secchio. Ti darà anche da mangiare e da bere. Sarà come una cazzo di badante»
Angelo fece una faccia disgustata, così come Jiah. Anche se Angelo aveva da recriminare qualcosa in più, visto che a lui era toccato il servizio di pulizia.
«Tu intanto dovrai fare solo una cosa. Suonare, e senza mai fermarti. Tonka si siederà vicino alla porta, di fronte a te, e se smetterai solo per un secondo, saranno cazzi. Cazzi che hai già provato.»
Jiah non capì cosa volesse dire, suonava la chitarra da anni, le sue mani erano allenate e i calli che si erano formati sulle dita erano duri come il cuoio. Che razza di tortura era? Sorrise senza accorgersene. Murano lo vide, ma non si scompose. Tirò fuori un biglietto dalla tasca dei pantaloni e lo aprì.
«Sono andato su internet, e ho fatto qualche ricerca: il Guinness dei primati di resistenza suonando una chitarra è di un irlandese. David Browne. Ha suonato per centoquattordici ore, sei minuti e trenta secondi. Tzé! Un fottuto irlandese. Ci sanno fare con la musica, la birra e i pugni, quelli. Ora, a me non frega un cazzo se batterai questo record, ricordati comunque che lui, quando non ce la faceva più, ha potuto fermarsi. Tu invece sarai obbligato ad andare avanti, anche se per suonare dovessero rimanerti solo le ossa delle dita, nude e crude. E ricordati che avrai anche un altro nemico in agguato: il sonno. Cerca di non cedere, o Tonka ti risveglierà a suon di pugni. Questo è quanto. Tornerò tra un po' per vedere se avrai qualcosa da dire. Buona suonata, amico. E tu, nano, fai quello che devi fare o tua moglie e tua figlia guarderanno le radici delle margherite da sottoterra»
«Sei un bastardo» disse Angelo.
«Eccome» disse Murano.
Tonka portò un'altra sedia e si mise dove aveva detto Murano. Jiah si era seduto per terra a gambe incrociate e aveva collegato la chitarra all'amplificatore. Murano se ne andò. Angelo si mise vicino a lui, e parlò sottovoce: «Vacci tranquillo, amico. Se sei bravo, non stare a fare magheggi con la chitarra. Suona roba lenta» Jiah annuì e il consiglio di Angelo gli fece venire un'idea. Con la mano sinistra non fece nulla: nessun accordo e nessuna scala, non posò nemmeno un dito. Con la destra, invece, appoggiò il plettro su una corda e la toccò appena, come a voler accarezzare una mosca. Lo fece tre o quattro volte. Lentamente. Note lunghe come il lamento di una balena. Tonka lo guardò come se gli avesse rubato il pranzo, e tirò una sberla al muro che produsse un rumore simile allo sparo di un fucile: «Il capo ha detto che devi suonare. Invece, quello che stai facendo, è prendermi per il culo. Suona!»
«Almeno ci hai provato» disse Angelo a Jiah.
Jiah si sistemo gli occhiali sul naso col dito indice e stavolta cominciò a suonare sul serio. Non si discostò di molto dall'idea di Angelo. Creò melodie d'atmosfera , calde come il tè in una giornata d'inverno, e andò avanti per ore. A un certo punto sentì il bisogno di pisciare, e ad Angelo toccò reggerglielo e scrollarglielo, e tutto mentre Jiah continuava a strimpellare. Tonka si gustò la scena e scoppiò a ridere: «Non vedo l'ora che ti scappi una bella cagata, Jiah» disse con le lacrime agli occhi.
Non passò molto tempo, prima che Jiah cominciasse a sentire i tendini bruciare come fili elettrici scoperti, i muscoli si irrigidirsi, e i polpastrelli che sembravano appoggiati sulla punta di un coltello. Disse ad Angelo che aveva fame e sete. Angelo riferì a Tonka, che fece una telefonata. La tortura continuò, poi si sentì il motore di un'auto. Angelo aprì la porta d'acciaio, e un tipo con la faccia smorta e il capello impomatato gli consegnò un sacchetto. Guardò dentro: un paio di sandwich con pollo, uova, formaggio e una bottiglietta d'acqua. Si avvicinò a Jiah e cominciò a imboccarlo. Approfittò del momento per parlargli:
«Come andiamo, amico?» disse.
«Sto per cedere. Non ne ho ancora per molto» disse Jiah.
«Ascolta, quel cazzo di gelataio ha rapito la mia famiglia e la tiene in ostaggio in un granaio a qualche chilometro da qui. E sai perché lo ha fatto? Per il semplice che voleva avere un “nano domestico”. Quello è uno dei più grandi figli di puttana che abbia mai conosciuto. Gli piace far soffrire gli altri, umiliarli. E tu, non pensare di cavartela con qualche ora di chitarra. Morirai, e lo sai. Ho una proposta: io aiuto te a salvarti il culo e tu mi aiuti a salvare la mia famiglia.»
Jiah, annuì. Angelo gli diede l'ultimo boccone di sandwich e una sorsata d'acqua.
«Un'ultima cosa, sei stato tu?» disse Angelo.
«No, non sono stato io. Qualche suo nemico deve avere fatto fuori Luane per far ricadere la colpa su di me. Mi hanno incastrato per bene.» Poi si guardò le dita: mentre suonava, la pelle morta dei calli era stata segata via dalle corde, fatta eccezione per qualche piccolo brandello, e la pelle nuova bruciava come se avesse scottato le dita su una piastra incandescente.
«Cerca di resistere, appena ne avremo l'occasione proveremo a fare fuori il bestione. Un solo tentativo. Se fallisce, siamo morti» disse Angelo.
Jiah riprese a suonare, ma in realtà non faceva altro che grattare il plettro sulle corde mute. Aveva perso la forza nelle dita e nelle braccia, e le gambe si addormentavano a turno, con quel fastidioso formicolio simile a scariche elettrostatiche sottopelle.
«Angelo, c'è una cosa che dovrei fare» disse.
«Devi pisciare?»
Jiah scosse la testa e disse: «Mi dispiace, ho resistito fin'ora, ma non ce la faccio più»
«Io il culo non te lo pulisco, bello» disse Angelo.
«Non ce ne sarà bisogno. Mi è venuta un'idea. Ti chiedo solo di reggermi la schiena mentre la faccio nel secchio. Al mio segnale buttati contro Tonka e fai di tutto per fargli male.»
«Non capisco cos'hai in mente, ma va bene.»
Jiah, che ormai sparava qualche nota qua e là tanto per fare, si alzò. Angelo gli slacciò i pantaloni e gli abbassò le mutande.
Tonka rise: «Inizia lo spettacolo, signore e signori!»
«Angelo, mutande e pantaloni, toglimeli del tutto» disse Jiah.
«Hey, hey. Cos'è questa storia?» disse Tonka.
«Non voglio correre il rischio di cadere e di imbrattarmi, tutto qui.» disse Jiah.
Tonka ci pensò un attimo:
«Ok, forza, mezzuomo, fai quello che devi fare»
Angelo annuì e gli sfilò pantaloni e mutande, poi prese il secchio e glielo mise tra le gambe. Jiah si posizionò come su una turca, Angelo si mise dietro di lui e appoggiò entrambe le mani sulla schiena per non farlo sbilanciare.
Tonka era in lacrime: «Oh, cazzo, sì! Questa mi farà passare una bella giornata»
Jiah fece roba liquida che sembrava cioccolata. Tutti quei sandwich gli avevano fatto un brutto effetto allo stomaco. Angelo ebbe conati di vomito per tutta la durata del servizio. Tonka era piegato in due: «Hey, nano, vuoi una cannuccia?»
«Figlio di puttana» disse Angelo.
«Spingimi, Angelo. Più forte che puoi» disse Jiah.
Angelo inarcò la schiena all'indietro e poi spinse con tutta la forza. Jiah si ritrovò in piedi, lasciò cadere la chitarra, prese il secchio e lo gettò in testa a Tonka prima che riuscisse ad alzarsi, e tutta la merda e il piscio gli riempirono la faccia e gli colarono giù dal collo, fino alle spalle. Jiah si abbassò, staccò il jack e raccolse la chitarra brandendola dalla parte del manico, e colpì il secchio talmente forte da romperla in due. Il manico gli rimase in mano, mentre il corpo lo raccolse Angelo. Tonka cadde per terra svenuto.
«Colpisci, Angelo, colpisci» urlò Jiah.
I due si avventarono su Tonka e cominciarono a devastarlo di colpi. Angelo, con il corpo della Les Paul messo di taglio, colpì il secchio ripetutamente. Mentre Jiah, col manico, lo trafisse dappertutto. Finché Tonka non si mosse più. Rimase sdraiato a terra in un bagno di merda e sangue.
«Esci fuori e guarda se arriva Murano» disse Jiah.
«Perché? Cosa devi fare? Meglio scappare, no? Dobbiamo salvare mia moglie e mia figlia»
«Sono con l'uccello di fuori e il culo sporco. Fammi dare una pulita veloce e fammi controllare il bestione. Magari ha qualcosa che potrebbe esserci utile»
«Ok, ma fai in fretta. Cazzo, che odore. Credo che abbia fatto la morte più brutta della storia.»
«Già, ma se l'è meritata tutta»
«Concordo in pieno» disse Angelo, che aprì la porta e uscì dalla stanza. Si nascose dietro un cespuglio lì vicino. Quando Jiah uscì dalla prigione, si era rimesso pantaloni e mutande dopo una ripulita con la carta igienica e la bottiglietta d'acqua rimasta. Si guardò intorno: la prigione di cemento era in mezzo a una campagna sperduta. Un cubo di cemento in mezzo al verde. Il Sole stava per tuffarsi dietro una collina e riempì quel posto desolato con i colori caldi del tramonto, e il profumo della primavera sostituì quello schifo che gli aveva invaso le narici per tutto il tempo.
«Ehi, Angelo, guarda cosa ho trovato» disse mostrandogli un revolver.
Poi si sentì un rumore in lontananza. Si voltarono entrambi in quella direzione e videro una macchina con i vetri oscurati.
«Cazzo, è Murano. Sta arrivando» disse Angelo.
«Dobbiamo farlo fuori e prendergli la macchina. Scappare non ci conviene. Io non sono per niente in forma e comunque ci vedrebbe a chilometri di distanza» disse Jiah.
Torna dietro a quel cespuglio. Io entro dentro. Cerchiamo di attaccarlo da due direzioni.
Angelo tornò al cespuglio e Jiah nella prigione. L'auto si fermò nelle vicinanze. Murano scese e si avviò verso la porta. Jiah l'aprì con un calcio e uscì puntandogli la pistola contro.
«Tieni le mani bene in vista, Murano» disse Jiah.
Murano notò che la mano di Jiah tremava vistosamente a causa della maratona, mostrò un ghigno e disse:
«Non ci penso proprio» La sua mano andò fulminea dietro la schiena per prendere la pistola. Jiah sparò un colpo e lo prese a una spalla. Murano ruggì come un leone e fece un passo indietro appoggiandosi alla portiera della macchina.
Angelo schizzò fuori dal cespuglio, saltò sul cofano e infine sulla sua testa. Gli coprì gli occhi con le mani, cercando di ficcarci le dita. Murano cominciò ad agitarsi, alzò la pistola e sparò in aria un paio di volte nel tentativo di colpirlo.
«Che cazzo stai aspettando, Jiah? Spara» fece Angelo.
Jiah sparò tre colpi, e sul vestito bianco di Murano sbocciarono tre rose di sangue. Si mise in ginocchio e cadde faccia a terra. Angelo saltò un attimo prima. Jiah si avvicinò, mise la punta della scarpa sotto la spalla di Murano e lo girò. Era ancora vivo e ansimava come un pesce fuori dall'acqua:
«Vi ammazzo, figli di puttana» disse mentre tossiva sangue.
«Vai a rompere i coglioni all'inferno, gelataio del cazzo» disse Angelo, che gli assestò un calcio in faccia con la suola della scarpa. Il naso di Murano fece il rumore simile alla rottura di un guscio di noce, poi gli uscirono un paio di bolle di sangue dalla bocca e morì.
«Era ora. Andiamo a liberare mia moglie e mia figlia» disse Angelo. Jiah annuì, prese la pistola di Murano e buttò l'altra, ormai scarica. Salirono in macchina e partirono.
Durante il viaggio, Angelo disse a Jiah che Murano aveva messo un bestione grande e grosso quanto Tonka a guardia del granaio.
«Anche se ci vede arrivare non sospetterà mai che siamo noi. Penserà che Murano sia tornato da quelle parti per dare una controllata. Abbiamo la fortuna di avere i vetri oscurati. Ci avviciniamo, abbassi il finestrino e lo fai fuori»
«Semplice e veloce» disse Jiah.
«Esatto» disse Angelo.
Fecero qualche chilometro e scorsero il granaio in lontananza. Lo scagnozzo di Murano era proprio davanti al grosso portone di legno e, come aveva previsto Angelo, quando vide la macchina non sfoderò la pistola. Jiah si fermò proprio davanti a lui. Prese il revolver e non abbassò il finestrino fino a quando l'energumeno non si fosse avvicinato abbastanza da centrarlo senza difficoltà; lo crivellò di colpi.
L'energumeno cadde a terra come un sacco di patate e morì in una nuvola di polvere.
«È fatta» disse Angelo.
«Non ancora» disse Jiah, che puntò la canna della pistola verso di lui.
«Che cazzo fai?»
«Un po' mi spiace, Angelo. Davvero. Solo che la mia natura non mi permette di mettere niente e nessuno tra me e le mie prede» disse Jiah.
«Allora sei stato tu. Hai fatto fuori la moglie di Murano»
«Perspicace, ma non abbastanza»
«Sei un bastardo, ti ho salvato il culo, dovresti essermene grato»
«Dove sta scritto?»
«Lascia stare la mia famiglia, ti prego»
«Assolutamente no. Te l'ho detto, è la mia natura»
«Spero che quando andrai all'inferno troverai Murano ad attenderti, e che ti faccia la festa che ti meriti, bastardo!»
«Staremo a vedere. Per ora sarai tu a fargli un po' di compagnia»
Jiah gli sparò in mezzo agli occhi, il bandana volò via e mostrò un aggrovigliamento di capelli simili a un castoro investito da un trattore. Il finestrino dietro la testa di Angelo si chiazzò di rosso e frammenti di materia celebrale gli schizzarono contro.
«Brutta pettinatura, amico. Mi fai sentire orgoglioso della mia pelata» disse Jiah, che poi scese dall'auto e gettò la pistola. Rovistò nella tasca dei pantaloni e tirò fuori le corde della chitarra che aveva preso nella prigione di cemento. Le avvolse un paio di volte attorno alle mani e diede un paio di strattoni.
«Non c'è niente di meglio» disse. E si avviò verso il granaio.
«C'è qualcuno? Abbiamo sentito degli spari» disse una voce femminile all'interno del granaio.
«È tutto a posto. Mi ha mandato Angelo per aiutarvi» rispose Jiah. La Luna piena era comparsa in cielo e l'aria era fresca e pulita, con un leggero sentore di fieno. Jiah aprì il portone, che scricchiolò come le assi di una vecchia nave pirata, entrò e passò tutta la notte -a modo suo- con la famiglia di Angelo.



COLONNA SONORA:


Allegati:


















  • martedì 10 luglio 2012

    La valigetta

    Quel giorno, Henry Monroe si godeva una passeggiata sulla spiaggia. Indossava una t-shirt dei Primus e dei jeans risvoltati fin sopra le caviglie. Nessuna presenza, a parte un paio di granchi che se la spassavano sul bagnasciuga. Il sole, di un bel arancione acceso, sembrava inzuppato per metà nel mare caldo della sera. La brezza gli accarezzava i capelli color cenere e la voce del mare sembrava quella di una madre amorevole. Henry si soffermò ad ammirare le evoluzioni di un gabbiano in cerca di cibo: qualche volteggio, poi scese in picchiata, ed entrò in acqua a gran velocità. Schizzò fuori con un pesce nel becco allontanandosi fino a diventare una piccola “v” che si sciolse nel sole. Henry sorrise e continuò la sua passeggiata. A un tratto intravide la sagoma di un uomo di colore, nero come inchiostro di seppia, che seduto sulla sabbia armeggiava con qualcosa di luccicante. Avvicinatosi i dettagli si fecero più nitidi: il tizio indossava un gessato grigio e una camicia color perla. L'uomo vide Henry e gli fece un gesto di saluto:
    «Hey, amico, avvicinati» disse. Quei bagliori provenivano da una valigetta in alluminio, simile a quelle che si vedono nei film di spionaggio:
    «Dannazione a queste cerniere. Scusa, amico. Devono essere difettose. Hai qualcosa per provare ad aprirle?»
    «Dipende. La valigetta ti appartiene?»
    «Stai tranquillo, non l'ho mica rubata. Senti, ho della birra ghiacciata. Qui, in questa borsa frigo.» Si voltò, ne pescò una e la offrì a Henry. «Avevo deciso di festeggiare da solo, ma il destino ha voluto donarmi qualcuno con cui condividere questo momento.» Henry, alla vista della brina sul vetro della bottiglia, schioccò la lingua, accettò la birra e strinse la mano all'uomo: «Henry Monroe, piacere.»
    «Dottor Martin Donovan. Piacere mio, signor Monroe.» Henry prese l'accendino dalla tasca e fece saltare il tappo. Buttò giù un bel sorso: frizzante e rinfrescante al punto giusto. «Ci voleva, eh?» disse Martin. «Eh, sì. Mi sembrava di avere la gola rivestita di sabbia» rispose Henry.
    «Ora me la dai una mano?»
    «Ah, scusa, quasi dimenticavo...» Henry infilò le mani nelle tasche e cominciò a frugare. Estraendo poi un coltellino svizzero multiuso: «Oh, perfetto» disse Martin. Henry si sedette vicino a lui, prese la valigetta, tirò fuori la lama dal coltellino e cominciò a lavorare sulle cerniere.
    «Posso farti una domanda?» disse Henry.
    «Cosa contiene?» rispose sorridendo Martin.
    «Esatto»
    Martin si voltò a scrutare l'orizzonte. Un sipario blu con qualche punto di luce stava per fagocitare il sole, divenuto una striscia di lava:
    «...Sai, ho lavorato tutta la vita per il contenuto di quella valigetta, e finalmente ce l'ho fatta» disse. Henry smise di maltrattare la valigetta e alzò la testa: «Ce l'hai fatta a fare cosa?» chiese.
    «Non voglio rovinarti la sorpresa» disse Martin.
    Henry aggrottò la fronte e si rimise al lavoro.
    La cerniera scattò facendo un rumore metallico:
    «Ok, e una ha ceduto» disse Henry, «Be', Martin, se ci hai lavorato tutta la vita, devi avere roba davvero forte, qui dentro» continuò.
    «Roba fortissima, Henry,» rispose Martin «come entrare in un'altra dimensione»
    «Non si tratta di droga, vero?»
    «Cosa? No, no. Figurati»
    «Non voglio guai!»
    «Ti ho appena detto di stare tranquillo»
    «Ok; voglio crederti.» Henry bevve un altro sorso di birra e si rimise al lavoro.
    Anche l'altra cerniera scattò:
    «E due» disse.
    «Bene. Ora passamela, per favore»
    Martin la prese e l'aprì: della spugna grigia proteggeva due fiale con del liquido all'interno, uno di colore verde e l'altro blu. Le tirò fuori con delicatezza dicendo:
    «Ok, Henry. La fiala verde ha un effetto temporaneo, direi sulle dodici ore. Questa, invece,» continuò Martin mostrandogli l'altra «be', questa dura per sempre... Voglio farti un regalo. Prendi questa» disse passandogli la verde. Poi si alzò e cominciò a spogliarsi. Henry rimase interdetto: «Che diavolo stai facendo?»
    Martin si tolse la giacca e mentre sbottonava la camicia disse: «Dove sto andando non mi servono vestiti». Finì di spogliarsi e tolse il tappo alla fialetta blu.
    «Se berrai la tua, avrai una nottata spettacolare»
    «Non credo che berrò questo intruglio, Martin»
    «Sta a te decidere. Un consiglio, se sceglierai di bere, non spingerti al largo. Potrebbe essere pericoloso.»
    «Ok» disse Henry, che dall'espressione sembrava avere appena visto passare un elefante in bikini.
    «Bene, ora devo andare. Addio, Henry» disse Martin, che si avvicinò e gli strinse la mano. Henry non rispose. Sembrava una statua di cera. Martin si diresse verso il mare e ci entrò fino alle ginocchia, bevve quindi il liquido blu, gettando poi la fiala vuota. Cominciò a nuotare e, dopo qualche bracciata, si immerse. L'acqua iniziò a ribollire e Martin riaffiorò agitandosi in modo inconsulto e urlando come un ossesso. Henry, preso dal panico, lo chiamò due, tre volte, ma l'acqua non fece neanche una crespatura. Si alzò di scatto e corse verso la riva urlando il suo nome. Si tuffò e mulinò le braccia nel tentativo di raggiungerlo. A metà strada, Martin, riemerse facendo un gran salto. Henry si fermò, sorpreso dal balzo. Lo seguì con lo sguardo: la pelle lucida come una palla da bowling, le braccia fuse ai fianchi e le gambe trasformate in una coda. Il muso allungato e la voce somigliante al guaito di un cane con una zampa spezzata. Martin ricadde in acqua, e tornò la calma.
    «Ma che cazzo...» disse tra sè Henry, attonito.
    Riemerse un delfino nero. Si avvicinò a Henry, gli girò intorno un paio di volte e lo toccò col muso.
    «Oh, porca puttana... Martin ... un delfino» disse Henry con l'espressione di un pesce palla. Il delfino fece un verso simile a una risatina e se ne andò. Henry tornò a riva sconvolto e si sedette vicino alla valigetta. Prese la fiala verde e ci pensò su. Fissò il mare scolandosi una birra e pensando a Martin, poi disse: «Sai che ti dico, Martin? Fanculo, ci provo» aprì la fiala e ne bevve il contenuto. Si alzò, si svestì e si diresse verso l'acqua. Una volta dentro, il cuore iniziò a battergli all'impazzata e le ossa presero a fargli un male del diavolo. Qualcosa gli stava crescendo ai lati del collo, toccandosi, sentì che si trattava di branchie. Aveva il respiro come quello di un asmatico e un desiderio irrefrenabile di immergersi. Andò giù e l'acqua divenne la sua aria. Si guardò le mani, le dita si fusero, si appiattirono, e diventarono delle pinne. Cominciò a rimpicciolirsi. Gli organi e le ossa cambiarono forma. Gli venne un gran mal di testa, più forte di quello di un risveglio post sbornia. Sembrava che quella parte del corpo dovesse esplodergli da un momento all'altro. Dopo tutto quel dolore e quel movimento, ne rimase solo un pesce, con striature blu e gialle sui fianchi e una boccuccia che aperta aveva le dimensioni di una fede nuziale. Decise di muoversi e schizzò come un proiettile. In preda all'euforia, piroettò con cambi di direzione improvvisi, scivolò tra le alghe e osservò dei granchi che passeggiavano sul fondo sabbioso. Nel frattempo il sole aveva lasciato spazio alla luna piena. I raggi argentei penetravano la superficie dell'acqua: un banco di tonni li attraversò: le scaglie riflettevano la luce, creando tanti piccoli flash. Henry si avvicinò a delle rocce. Un polpo si accorse della sua presenza e lo guardò minaccioso con i suoi globi carnosi. Spruzzò dell'inchiostro e tutto si fece buio. Henry, non sapendo cosa fare, si mise a nuotare a caso, cercando una via d'uscita in quella nube nera come il petrolio, che sembrava espandersi come l'universo. Quando se ne tirò fuori, si accorse di trovarsi al largo, dove Martin gli aveva raccomandato di non andare. Il motivo per quella raccomandazione gli si palesò subito davanti. Una sagoma nera arrivò dal nulla, grande quanto una barca a remi. L'ombra si voltò e mostrò un sorriso simile a un set di coltelli. Lo squalo lo guardò con occhi gelidi e si mosse per raggiungerlo. Henry si guardò intorno, scorse il banco di tonni e gli venne un'idea. Nuotò più in fretta possibile dirigendosi verso di loro, evitando per un pelo un paio di attacchi. Una volta davanti ai tonni virò di novanta gradi e le attenzioni dello squalo si spostarono verso una preda più succulenta. Henry arrivò esausto vicino alla riva. Tirò fuori il muso dal pelo dell'acqua. La notte aveva ceduto il posto a un cielo diurno, sgombro di nuvole, con il sole tornato una palla di fuoco. Il suo cuore riprese a battere come un martello pneumatico, e le sue lische fremere come scosse da un terremoto. Stava tornando umano. Per Henry fu un'esperienza che, per quanto rischiosa, gli avrebbe fatto ringraziare Martin per tutta la vita. Di certo non lo avrebbe raccontato a nessuno. Non ci crederebbe lui stesso. Non gli rimaneva che tornarsene a casa e tenersi questo segreto per il resto dei suoi giorni, ma un'ombra schizzò sopra la sua testa. Henry non fece in tempo a immergersi di nuovo che venne trascinato fuori dall'acqua da una morsa intenta a fargli esplodere le viscere. Vide la spiaggia allontanarsi, fino a diventare una miniatura.
    Dopo aver sorvolato la scogliera, fu catapultato dentro a un nido, dove garrivano tre piccoli gabbiani. Sentì il dolore acuto del becco della madre che gli squarciava la pelle e capì di essere diventato il loro pasto.




    Colonna sonora:


    Allegati:


    mercoledì 25 aprile 2012

    Frankie goes to...

    Frankie era un assassino. Uno dei più spietati. Le sue vittime preferite erano giovani ventenni bionde e ben formate. Adorava le tette grandi, quelle con i capezzoli grossi come mignoli, da strappare coi denti. E adorava affondare il suo taglierino nella loro gola e solcarla da orecchio a orecchio. Un getto di sangue caldo che lo avrebbe corroborato ed eccitato, facendoglielo diventare duro. Una volta morte le girava e le prendeva da dietro. Stava attento a uscire prima e a venire su un fazzoletto di stoffa che si portava da casa. Sempre lo stesso, che lavava e rilavava. Una volta finito buttava i cadaveri nel fiume, quando le piogge torrenziali improvvise scaricavano tonnellate d'acqua e gli argini si riempivano fino quasi a traboccare. Era piuttosto pericoloso, ma a Frankie piaceva. Quando gettava dentro le sue vittime le vedeva schizzare via come proiettili. L'acqua sembrava un nastro trasportatore impazzito, alle volte i corpi si incastravano nelle radici di qualche albero sradicato dalla furia degli elementi e si disintegravano contro qualche grossa roccia, sparpagliando legno e membra. Il fango farà il resto, pensò. Tutto sembrò andare alla grande, e Frankie non riusciva proprio a darsi una calmata, anzi. Più ne ammazzava, più ne voleva. Era ingordo di sangue, sesso e morte. Fino a quando non scoprirono un cadavere incastrato tra due rocce, vicino alla riva del fiume, con lo sciabordio dell'acqua che faceva ondeggiare quel corpo rigonfio come un canotto sgonfiato. Un altro lo ritrovarono sul ciglio di una strada. Un contadino che passava da quelle parti notò due gambe che spuntavano da un cespuglio. La polizia capì subito che la mano che aveva ucciso le due ragazze era la stessa e le collegò alle altre scomparse i mesi addietro. Cominciò una caccia all'uomo. I giornalisti diedero subito un nomignolo a Frankie: "Lo sventratore del fiume". Quando Frankie lo lesse sul giornale locale si sentì fiero di se stesso. Quelli coi nomignoli sono i più tosti. Vuol dire che avevano paura di lui. E lui si nutriva di paura.
    Capì che doveva cambiare strategia, così diminuì la frequenza degli omicidi. Era dura, più dura dell'astinenza da eroina. Ma doveva farlo. Decise di non gettare più i cadaveri qua e là come uno sprovveduto. Li avrebbe messi tutti in una grossa fossa comune, sempre in riva al fiume. Non voleva snaturare del tutto le sue consuetudini.
    Passarono sei mesi e la polizia brancolava nel buio. La fossa funzionava e le bionde si accatastavano una dopo l'altra. In paese scattò il coprifuoco, ma i mostri agiscono anche alla luce del Sole, se messi alle strette. Frankie di giorno era un postino. La mattina presto, col suo Pick-up, si recava alle poste in paese, prendeva la macchina di servizio e  cominciava la distribuzione. Era così che le sceglieva, le sue amichette. Era conosciuto come un bravo ragazzo, che non metteva la posta nella casella delle lettere, ma la consegnava a mano, direttamente al proprietario. In realtà, quando gli aprivano la porta, sbirciava dentro, in cerca di qualche biondina tutta curve con cui giocare. Alcuni lo invitavano abitualmente a entrare in casa per un caffè. Alla fine dell'ultimo turno incontrò Jasmine. Che spettacolo. Tette grosse e sode e una folta chioma bionda che le accarezzava le spalle. Quando le consegnò la bolletta della luce fremeva e sudava freddo. Lei sorrise e lo ringraziò, lui voleva estrarre il taglierino e lavorarla come meritava. Anche se era un grosso rischio, non poteva farsela scappare. A causa del coprifuoco era in astinenza da un bel po'. Non potè resistere. Le chiese un bicchiere d'acqua. Jasmine si voltò e si diresse in cucina. Frankie sentì tremare le gambe, guardando quel culo marmoreo e ondeggiante e invitante. Le mutande si riempirono e la sua adrenalina esplose. Afferrò la gola della ragazza con entrambe le mani e cominciò a stringere, fino a farla svenire. Caricò Jasmine in macchina, stando attento a non essere visto, e tornò al Pick-up, dove caricò il corpo e se lo portò via. Era una bella serata. L'aria era fresca e le stelle cominciavano ad affiorare dal rosso sbiadito del tramonto. Come un bracere che affievolisce, lasciando il posto al buio. La Luna si alzò piena e luminosa. Frankie passò dal capanno degli attrezzi a prendere una pala e una corda. Poi entrò in casa, superò con lunghe falcate i cartoni di pizza e calciò via qualche avanzo sparso sul pavimento, raccolse un paio tra le decine di lattine di birra schiacciate e le agitò cercando un sorso, come un assetato nel deserto. Neanche una goccia.Tutte scolate. Salì le scale ed entrò in camera da letto, prese il fazzoletto di stoffa pulito dal comodino e se lo mise in tasca. Una volta fuori legò e imbavagliò la ragazza  e si diresse verso la riva del fiume. Giunto a destinazione la tirò giù dal cassone, la slegò e cominciò a schiaffeggiarla. Jasmine si svegliò e il terrore si impadronì di lei.
    «Chi sei?» chiese con la voce tremolante.
    Frankie allargò le gambe e tirò fuori il taglierino, lo alzò verso il cielo, facendo brillare la sua lama sotto la luce della Luna e disse con voce solenne: «Sono lo sventratore del fiume! Fa effetto vero? L'ho studiata venendo qui. Ora giochiamo, bellezza.»
    Frankie la lavorò per bene, come al suo solito. All'inizio, preso dalla frenesia, la tagliuzzò dove capitava, troppo tempo senza far niente, poi si concentrò su quei bei meloni e decise di non fermarsi ai capezzoli. Allungò la lama del taglierino e sezionò i suoi seni con cura. Li leccò e si appoggiò quei morbidi cuscini di carne sulle guance, prima di buttarli. Poi le fece sorridere al gola, la girò e dopo qualche minuto tirò fuori il fazzoletto di stoffa. 
    Restò seduto per qualche minuto, stremato e in pace con se stesso. Lo avrebbe rifatto altre mille volte. Caricò il cadavere (tette comprese) di nuovo sul Pick-up e si spostò di un paio di chilometri, dove si trovava la fossa comune. Scaricò il corpo e prese la pala. Cominciò a scavare. Ruggiti lontani e lampi simili a flash fotografici minacciavano pioggia. Fortunatamente la terra umida gli alleggeriva il lavoro. Non dovette scavare molto a lungo prima di vedere riaffiorare la testa di Colette. La decomposizione le aveva scarnificato parte della bocca e un pugno vermi brulicava sulla lingua. Gli occhi erano cavità piene di terra. Frankie sorrise, portò la mano alla bocca e le spedì un bacio.
    «Ah, se ci siamo divertiti...» disse, e ficcò la pala nella terra, ma non riuscì a proseguire.
    Si accorse che continuava a cozzare contro i resti delle altre ragazze, così decise di allargare la fossa. Domani ne avrebbe scavata una nuova, più grande. Così da poter ospitare tante deliziose bamboline morte. Ora non aveva tempo. I fulmini cominciarono a disegnare ramificazioni elettriche su un manto nero come il petrolio. Pochi lievi ticchettii colpirono il tettuccio del Pick-up, poi tutto fu invaso dall'acqua. Come se Dio avesse deciso di spremere tutte le nuvole insieme. La terra si trasformò presto in fango e Frankie si trovava all'interno della fossa e toglieva terra dalla parete. Bionde accatastate da una parte, parete dall'altra. Non c'era più tempo per scavare, così si appoggiò di spalle al mucchio di cadaveri e cominciò a spingere, tentando di fare abbastanza spazio per Jasmine. Quando gli sembrò abbastanza cominciò ad arrampicarsi. Faceva molta fatica con tutto quel fango. I piedi sembravano cercare un appiglio su un muro gelatinoso e le mani affondavano nella terra fradicia appigliandosi a poco e niente. Cadeva e risaliva, cadeva e risaliva. A un certo punto riuscì ad arrivare sull'orlo della fossa. Il corpo di Jasmine era lì vicino, così si aggrappò a lei. Le afferrò un braccio e tentò di tirarsi su. Tirò fuori la testa e diede uno sguardo al fiume in piena. Capì che doveva fare molto in fretta se voleva salvarsi il culo. I piedi mancarono l'appiglio due o tre volte. Frankie era allo stremo delle forze. Gli argini del fiume cedettero e raggiunsero la fossa. La terra si indebolì ulteriormente e cominciò a cedere sotto il corpo di Jasmine, che cadde addosso a Frankie, che atterrò di schiena. I due si trovarono faccia a faccia. I suoi occhi azzurri sembravano dirgli - Io e te, per sempre, figlio di puttana - Frankie non riuscì a sostenere quello sguardo, si voltò e incontrò gli altri. Quelli delle altre ragazze che aveva ucciso e stuprato. Scoppiò a ridere, prima di ingoiare la terra. Fango e acqua coprirono la fossa. I corpi si spostarono e la bocca di Frankie incontrò quella di Colette che gli passò i vermi, come due amanti che si passano la cicca durante un bacio. Poi il buio.
    Qualche anno dopo, durante un'altra piena, alcuni dei corpi riaffiorarono e il fiume se li portò con sé. I cadaveri si incastrarono lungo la riva, fino al paese. La polizia seguì la scia di morte e arrivò alla fossa. Dentro trovarono il resto dei cadaveri, e Frankie. Si resero conto subito che era " Lo sventratore del fiume". Non era femmina, non era biondo, non aveva tette grosse e neanche un graffio. Il medico legale fece le sue analisi e, alla conferenza stampa, disse che molto probabilmente Frankie era caduto da solo nella fossa, durante un' esondazione e che non fosse riuscito a risalire. L'odio per quello che aveva fatto quel bastardo di un postino lo fece diventare lo zimbello del paese. Solo uno stupido costruirebbe una fossa vicino alla riva del fiume durante il periodo delle piogge, e solo uno stupido ne costruirebbe una talmente grande da non poter più riemergere una volta dentro.
    I giornali gli cambiarono il nomignolo: " L'idiota del fiume". I familiari delle vittime si misero d'accordo col sindaco e con la polizia. Seppellirono le ragazze al cimitero, con fiori freschi e bellissime lapidi in marmo, con sopra le loro foto sorridenti. Frankie, invece, lo lasciarono in quella fossa fangosa in riva al fiume. Incrociarono due rami mezzi marciti formando una croce, la legarono con del fil di ferro e la piantarono insieme a un cartello con su scritto "Frankie l'idiota del fiume". Ogni 12 Ottobre, i familiari delle vittime, vanno al cimitero a salutarle e a pregare per loro e a cambiare i fiori rinsecchiti con altri appena colti. Poi il resto del paese si unisce ai familiari, e tutti si dirigono verso la tomba di Frankie e ci sputano sopra a turno.


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    mercoledì 18 aprile 2012

    Il prete 8

    «Dalla tua espressione direi che hai capito chi sono» disse Don Bruno «Non ci è voluto molto per convincere il prete che ero solo una ragazzina innocente, rapita da due "cattivoni" come voi. Appena si è avvicinato per slegarmi sono uscito dalla ragazza e sono entrato dentro di lui. Perché devi sapere che i demoni più potenti possono trasferirsi da un ospite all'altro quando ne hanno voglia. Nel prete mi ci sono tuffato. Calza a pennello» e si guardò le mani come se stesse osservando dei guanti pregiati. Poi piegò le dita come artigli: «Una volta dentro il prete le ho preso la testa tra le mani e ho cominciato a girarla. Mi sono fatto un po' trasportare... Sentire quel rumore simile a un fascio di rami che si spezzano è una goduria.» Si leccò le labbra, pensando che quando le girò il collo la ragazzina era cosciente. Sentì la torsione, il dolore e la vita che la abbandonava, facendole vedere il mondo a trecentosessanta gradi.
    «Perché il prete? Perché non uno tra me e Sonny? Siamo più grossi e cattivi» chiese Leo. 
    «Be', il piano iniziale era quello. Ma, come ho detto prima, appena vi ho sentito parlare di andare a prendere il prete in paese, ero tutto un fremito. Per noi, entrare dentro un prete e gettare la sua anima tra le fiamme, è come per voi vincere alla lotteria, con annessa la più bella pupa presente sulla terra.»
    - Il prete forse può sentirmi, la ragazzina ogni tanto tornava in sé. Se riesco a farlo uscire anche per qualche secondo... - pensò Leo.
    «Hey, prete! Mi senti? Vieni fuori, avanti!» urlò.

    Il prete era prigioniero nell'oscurità, immerso in una melma dove sguazzavano creature striscianti, che lo mordicchiavano e gli penetravano negli orifizi, diventando voci che scorrevano nelle vene e attaccavano la testa. Voci di morte e di un destino nel buco del culo dell'inferno. Don Bruno sentì un eco lontano, ma non riuscì a cogliere nient'altro. Tornò alla sua disperazione.

    «Oh, Leo. Volevi far riemergere il prete quel tanto che bastava per farmi fuori, vero? Ci provano sempre tutti. Non preoccuparti, è al sicuro nelle mie tenebre, ben distante da Dio. Non tutti sono abbastanza forti e devoti per resistere, anzi, la maggior parte sono l'esatto contrario. Il mondo è diventato più spietato, freddo e sempre meno credente. Prendere le anime ormai è come ordinare un take-away al fast food» disse il demone, sorridendo compiaciuto.
    Leo appoggiava in pieno l'ultimo pensiero del demone. Il mondo era diventato una vera merda. Ma ora doveva pensare a salvarsi la pellaccia. Gli servivano più informazioni, uno spiraglio di luce, l'angolo cieco del pugile.
    «Cos' hai fatto a Sonny?»
    «Sonny?» disse il demone leccandosi nuovamente le labbra, e ciò non presagiva niente di buono: «Non tutta la storia che ti ho raccontato è vera.»
    «Non mi dire...»
    «Eh, già. Vedi, è vero che stava andando veloce, ma il furgone, la strada, la teneva bene. Stavo discutendo con Sonny, provocandolo riguardo al vostro litigio, così da farlo accelerare ancora un po'. Durante una curva ho preso il volante e ho sterzato di colpo. Siamo usciti di strada e siamo stati sbalzati fuori e lui a preso un tronco in pieno, io no. Ed è vero anche che era rimasto paralizzato dal collo in giù e che era ferito gravemente. Mi sono avvicinato a lui e gli ho dato un bel bacio. Gli ho acchiappato la lingua con i denti e l'ho strappata, lo messa bene in bocca e ho cominciato a masticare. Buona, sapeva di maiale. Poi gli ho ficcato le dita in un orbita e ho strappato via un occhio. L'altro gliel' ho lasciato sano. L'ultima cosa che ha visto prima di morire è stato il suo occhio schiacciato come un chicco d'uva sotto la suola della scarpa. Poi ho preso un pezzo di vetro rotto dal parabrezza sfondato e mi sono tagliato la fronte e la gamba. Ed eccoci qui, io e te.»
    Leo intanto aveva recuperato le forze e si rimise in piedi.
    Il demonio sorrise, guardò la pistola e poi guardò Leo.
    «La faccenda dell'essere armato è sistemata. Ora vedremo quanto fumano le tue palle» e gettò la pistola.
    «Come dite voi, roba da uomini! Forza ragazzone, vediamo come usi le mani.»
    «Qualcuno ti ha mai fatto il culo?» 
    «Negli ultimi tre secoli? No.»
    «La rissa con Sonny l'hai persa.»
    «La rissa con Sonny l'ho persa volutamente. Era solo per sgranchirmi un po'. Per spezzare la noia.»
    «Però sei ferito.» 
    «Cosa? Ah, questo» si passò una mano sulla fronte e il taglio sparì, come una spugna su una macchia di sugo «Ho qualche vantaggio, che ci vuoi fare.»
    Leo fece una smorfia di disappunto, si diede un paio di pacche sui vestiti per togliersi la polvere e fece un accenno di stretching. Gesti inutili che gli servivano a guadagnare tempo per pensare a come attaccarlo.
    «Ok, figlio di puttana. Occhio, perché ce la metterò tutta.»
    «Non chiedo altro.»
    Leo si scagliò verso il demone, pensando a tutto ciò che lo aveva fatto incazzare nella vita e alla vita stessa. Alimentò i muscoli con adrenalina e rabbia e spense il cervello, lasciandogli solo le informazioni immagazzinate da anni di galera, risse, sparatorie e violenza. Sapeva di avere poche possibilità, ma voleva rendergliela molto dura. Voleva togliergli quel cazzo di ghigno dalla faccia.
                                        
                                                     * * *        

    La Luna era una pennellata color perla su un manto color catrame, bucherellato dalla luce delle stelle. Mancava ancora qualche ora al mattino e gli animali notturni in cerca di prede si muovevano e brulicavano e avevano fame. Il rifugio invece era silenzioso, immerso nelle trame della notte. Una sagoma aprì la porta e uscì. Piantò due paletti e legò una cordicella da una parte all'altra tenendola ben tesa. La sagoma rientrò per qualche minuto. Tornò fuori e la luce della Luna lo illuminò per un secondo. Era il demone, completamente nudo. Aveva in mano i vestiti da prete appena lavati e li appese con cura sulla cordicella. Teneva una sigaretta di Leo tra le labbra, che sfumacchiava a brevi sbuffi. Appese il completo scuro e il collarino ad asciugare e tornò dentro. Mise del caffè a scaldare sul fornelletto e si diresse al lavabo per darsi una sistemata. Una volta pronto prese una tazza di metallo e ne versò un po'. Prese la scatola di biscotti al cocco e si mise a sedere. Stese e accavallò le gambe. Aveva messo i corpi di Ester e di Leo uno sopra l'altro e gli sembrarono un ottimo poggia piedi. Annegò un biscotto nella tazza e lo assaggiò.
    «Mmmh... davvero buoni» disse.
    Gli cadde l'occhio sul corpo di Leo. Era impregnato di sangue e colava sul pavimento creando una pozzanghera rossa e scura. Aveva parecchie ossa rotte, e del bianco sporco fuoriusciva qua e là da braccia e gambe. La sua espressione rimase combattiva anche dopo la morte.
    «Non guardarmi così, io una possibilità te l'ho data» disse il demone.


    Passò la notte e il mattino tornò frizzante e pieno di vita (almeno fuori dal rifugio) e l'orchestra del bosco cominciò a suonare. Il demone uscì e tirò giù i vestiti dalla cordicella. Erano asciutti. L'aria profumata e la brina del mattino gli riempirono le narici. Odiava quell'odore. Quasi gli venne un conato di vomito. Tutta quella bellezza e purezza era uno schifo. Rientrò, indossò i vestiti e inspirò a pieni polmoni. Quello era l'odore che preferiva. L'odore della carne che marcisce, il misto del fetore della decomposizione con le feci fuoriuscite dai loro corpi. Ma era ora di andare. Tornò fuori e si incamminò verso il bosco. L'orchestra mutò e divenne un fuggi fuggi generale. Nubi di uccelli sporcarono il cielo e animali piccoli e grandi cercarono rifugio. Chi sugli alberi, chi in qualche tana. Finché non rimase il silenzio. Il demone sospirò: «Ah, finalmente un po' di pace» e si diresse in direzione del paese, fischiettando.       
                                              FINE


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    sabato 14 aprile 2012

    Il prete 7

    «Parla, prete» disse Leo.
    «Posso sedermi almeno? Sono ferito!» disse Don Bruno.
    «Puoi anche morire in questo istante per quanto mi riguarda. Parla, o ti sistemo anche l'altra gamba.»
    «Abbiamo avuto un incidente. Sonny ce l'aveva con te per quello che era successo nel rifugio e ha cominciato ad andare a tavoletta. Durante una curva il furgone è uscito di strada. Le ruote non hanno tenuto con tutto quel fango. È andato dritto per dritto e ci siamo schiantati contro un albero, siamo stati sbalzati fuori e lui ha preso in pieno un tronco. Deve essersi rotto la spina dorsale, perché non riesce a muoversi. Perde un mucchio di sangue da un fianco. Dobbiamo fare presto!»
    «Mi stai riempiendo di cazzate. Perché sei tornato? Potevi scappare e avvisare la polizia» disse Leo.
    «Volevo farlo, ma le mie ferite sono troppo gravi, non ce l'avrei mai fatta ad arrivare fino al paese e anche se ci fossi riuscito, al mio ritorno con la polizia, Sonny sarebbe già morto. Ho preferito tornare e chiedere aiuto a te... Siamo tutti figli di Dio, Leo. Sonny non merita quella fine, la sua punizione la riceverà dopo la morte. Se c'è una minima possibilità di salvarlo, è mio dovere tentare. Starà al Signore giudicarlo.»
    Leo fece un mezzo ghigno e scosse la testa: «Sarà pure come dici tu, prete, ma Dio si deve mettere in fila. In questo momento chi sta giudicando sono io. Entra, svelto» disse.
    Don Bruno zoppicò per qualche metro poi cadde a terra e fece una smorfia di dolore.
    «Che cazzo, ti vuoi muovere?» disse Leo.
    «Così sto già andando alla velocità della luce. Una mano no, eh?»
    «Non ci penso proprio. Muovi il culo.»
    Il prete cadde ancora un paio di volte, prima di entrare. Trovò Leo già seduto. Raggiunse una sedia e si accomodò come meglio poteva.
    Leo rimase in silenzio e fissò Don Bruno per qualche minuto. Come se avesse dei poteri per leggere la mente.
    «Non andiamo da Sonny? Dovremmo...»
    «Chiudi quella cazzo di bocca. Sto pensando.»
    Leo aveva capito di trovarsi in una brutta situazione. Come doveva agire ora? Se il prete diceva la verità, Sonny poteva anche crepare. Si sarebbe preso la sua fetta e l'ultima cosa che voleva fare era chiamare qualcuno per aiutare quel pezzo di merda. Doveva fare fuori il prete e trovare un altro posto e rimanerci con la ragazza fino al giorno del rilascio. Non poteva andare da Sonny e lasciarla incustodita un'altra volta.  - La ragazza? Cazzo, devo controllare -
    Si alzò e si diresse verso la porta. Accostò di nuovo l'orecchio. Nulla.
    «Cosa stai facendo? Dobbiamo andare!» disse Don Bruno.
    Leo si girò, affrettò un paio di passi verso il prete e gli mollò un manrovescio che gli fece girare la faccia. Uscirono i segni delle dita: colore e bruciore del fuoco.
    «Basta» disse Leo. Don Bruno mise una mano sulla guancia arroventata e  annuì.
    Leo tornò alla porta e l'aprì. Spalancò i suoi occhi grigi e lo shock e la rabbia si mescolarono, facendogli scoppiettare il cervello come un pop-corn. Vide il corpo della ragazza inerte, di un colore biancastro, tranne la zona del collo, dove si notava una torsione innaturale di colore violaceo. Ester era distesa per terra, pancia sopra, ma il suo sguardo lattiginoso fissava le assi del pavimento. 
    «Che cazzo sta succedendo?» disse Leo. Da dietro, un braccio gli avvolse il collo e la mano con la pistola venne bloccata all'altezza del polso. Si sentì soffocare e lo scricchiolio delle ossa dell'avambraccio gli fece mollare la presa sull'arma, che cadde a terra. Tutto cominciò ad appannarsi. La bocca di Don Bruno si avvicinò all'orecchio di Leo: «Peccato che tu abbia già scoperto la ragazza, volevo divertirmi ancora un po'.»
    «Bastardo di un prete» ringhiò Leo. Don Bruno gli appoggiò un piede sulla schiena e lo spinse dentro la stanza. Leo cadde faccia a terra, vicino alla ragazza, che sembrava fissarlo con i suoi occhi vitrei, dove la scintilla della vita si era disciolta, come neve bagnata dal piscio caldo.
    «La faccenda dell'essere armato è sistemata. Ora vediamo quanto fumano le tue palle» disse Don Bruno. Lo spirito combattivo di Leo accolse la provocazione e lo fece rinsavire. Si mise seduto e si massaggiò il polso. Don Bruno si trovava appena fuori dalla stanza, con la pistola puntata.
    «Si può sapere chi cazzo sei?» chiese Leo.
    Don Bruno rise sguaiatamente.
    «Quando ho sentito voi due bifolchi parlare del prete non stavo più nella pelle... di Ester» e rise di nuovo. Leo, dal canto suo, non rideva per niente. Gli bastò quella frase per capire di essere immerso nella merda con un blocco di cemento ai piedi. 

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    venerdì 6 aprile 2012

    Il prete 6

    Leo si chiuse nel rifugio, si sedette e accese un'altra sigaretta. Stavolta andò giù come si deve. Sentì i polmoni riempirsi di fumo e sentì la nicotina circolargli in corpo. Una leggera vertigine scollegò,  ma solo per un secondo, la sua mente dal fracasso dei pensieri.
    Una volta esorcizzata la ragazza avrebbe organizzato la data del rilascio e, con il riscatto, potersi finalmente godere una meritata vacanza. Con quei soldi sarebbe andato in Messico a suon di cannoni, bamba, tequila e troie. E non si sarebbe schiodato da quel posto fino alla fine dei suoi giorni (un periodo abbastanza breve, visto il progetto). Il suo ragionamento si spostò verso il prete. Sotto sotto non gli sembrava così malaccio. Era sveglio. Più sveglio di quello sfregiato col cervello impantanato nella merda di Sonny. Ma doveva farlo fuori. Due testimoni sono troppi e la ragazza doveva vivere per il riscatto. Una volta tornata in sé, ci avrebbe fatto due chiacchere alla sua maniera e l'avrebbe convinta sulla cosa giusta da fare. Tacere. Sono calcoli semplici per uno come lui. Doveva prendersi una delle due vite. Quella nuova in Messico o quella del prete. Prendere il miele o uccidere l'ape.
    Sapeva che il prete non avrebbe detto niente agli sbirri, ma con l'eliminazione, Leo, ne avrebbe avuto la certezza.
    Fissò la nebbiolina che si era creata nell'ambiente, i disegni del fumo appena espirato formavano spirali, cerchi e serpenti, che si aggrovigliavano per poi dissiparsi lentamente diventando un tutt'uno. Oltre quella foschia c'era la porta della stanza di Ester. Leo si accorse che, da quando era entrato nel rifugio, non aveva sentito  alcun rumore. Niente bestemmie, urla o conati. Niente. Si alzò e si avvicinò lentamente alla porta. Accostò l'orecchio, ma non avvertì nulla. 
    «Hey, ragazzina. Tutto bene lì dentro?» disse. 
    Non ci fu nessuna risposta. Leo avvicinò la mano alla maniglia e l'abbassò, ma non fece in tempo ad aprire la porta. Delle urla provenienti dall'esterno lo misero in allerta. Tirò fuori la pistola e si chinò. Si avvicinò con cautela all'ingresso.
    «Leo! Leo!» si sentì urlare. «Conosce il mio nome e sa dove si trova il rifugio» pensò. Aprì la porta e vide il prete che emerse dal bosco, barcollante e ferito. Aveva un taglio profondo sulla fronte e il sangue colava sul volto, giù fino al colletto, ormai diventato rosso. L'abito scuro era sporco di fango e fogliame appiccicato e la gamba destra era ferita. Lo notò dall' effetto traslucido che aveva il tessuto impregnato di sangue.
    Leo uscì e puntò la pistola verso il prete.
    «Non ti muovere, resta dove sei o ti faccio fuori.»


    COLONNA SONORA: 







    ALLEGATI: